dalla nascita alla dittatura
 

 

 

 

 


La situazione generale

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el 1919 ci si rese conto che la Belle époque era finita per sempre lasciando un’Europa disfatta e desolata davanti ad una crisi economica senza precedenti. Il conflitto appena concluso era stato ben diverso da quelli che l’avevano preceduto: contingenti enormi di truppe avevano devastato vaste aree geografiche, stravolgendo l’assetto dell’Europa e il suo sistema economico. Inoltre l’eco minacciosa della rivoluzione bolscievica rappresentava un segnale chiarissimo della fine dell’economia di tipo capitalistico-coloniale che aveva fino ad allora dominato.

L’Italia aveva tratto dalla vittoria grandi benefici, malgrado le fossero spettati pochi territori: il coronamento dell’aspirazione unitaria, il nuovo ruolo nell’equilibrio europeo, la sicurezza territoriale, che giungeva dopo quindici secoli di minacce e invasioni. La maledizione che aveva sempre gravato sulla nazione – e che Metternich aveva riassunto nel detto «l’Italia è un’espressione geografica» -sembrava svanita. La fine del 1918 e l’inizio del 1919 passarono abbastanza tranquillamente, anestetizzati dall’euforia della vittoria. In primavera le cose però cominciarono ad evolvere, in peggio.

Durante la guerra alle truppe era stato fatto ogni genere di promessa: soprattutto di avere, a guerra vinta, terra da lavorare e posti nelle industrie. Il governo si era impegnato in Parlamento, con relative proposte di legge, ma dopo mesi dalla fine della guerra non era ancora accaduto niente. Lo stato sembrava essersi dimenticato delle promesse fatte ai suoi uomini. I violenti scioperi e i moti che a marzo scossero fabbriche e città dimostrarono che i reduci ricordavano benissimo quelle promesse: i contadini del Sud occuparono le terre, gli operai del Nord le fabbriche; gli effetti furono immediati: la produzione ebbe un crollo, l’inflazione un’impennata e i generi di prima necessità cominciarono a scarseggiare. I lavoratori e gli ex combattenti si sentivano traditi dai politici, anche perché per i grandi industriali, commercianti e proprietari terrieri la guerra era stata molto redditizia (Einaudi disse a proposito del monopolio industriale delle grandi aziende:«Si è pagato dieci ciò che costava cinque, lasciando lucrare cinque al fabbricante».), e a renderlo possibile era stato lo Stato, tra l’altro evitando per le aziende belliche ogni controllo sindacale e permettendo ai proprietari di spadroneggiare come non mai.

Anche i ceti medi attraversavano un forte disagio: schiacciati fra le masse popolari e i «pescicani», videro allontanarsi sempre di più l’alta borghesia dal loro orizzonte, mentre si avvicinava lo spettro del proletariato (sarà proprio la classe media, carica di rancori nei confronti del governo, dei «pescicani», dei «bolscevichi», a costituire la prima forza del fascismo).

Quasi tutto il paese, insomma, era affondato nella miseria e nella paura per il futuro (paura, stanchezza, amarezze e disagi di ogni tipo saranno il terreno su cui si fortificherà il fascismo).

Come conseguenza, nell’autunno-inverno tra 1919 e 1920, chiamato «l’inverno rosso», in Umbria, Toscana, Emilia Romagna e Lombardia il popolo si sollevò invocando la rivoluzione; gli industriali vedendosi seriamente minacciati furono costretti a concedere un aumento dei salari; in campagna però le retribuzioni scesero ancora, costringendo i contadini a drammatici scioperi per lunghezza e conseguenze, ottenendo l’adeguamento dei contratti e la possibilità di occupare le terre incolte. Ciò non bastava però a far fronte alla crescente inflazione, che annullava in breve tempo ogni conquista di operai e contadini.

Gli ex ufficiali congedati non riuscivano a riconoscersi negli eventi che stavano dominando la loro nuova esistenza: avevano perduto i benefici della vita militare e la potenza dell’ Italia era rimasta sulla carta. Per loro governo e Parlamento avevano operato e stavano decidendo contro gli interessi della nazione, oltre che contro i loro.

 

 

I fasci di combattimento

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l dopoguerra era stato un brusco risveglio anche per Mussolini. I socialisti lo disprezzavano, i moderati non lo avevano in simpatia e la destra lo ignorava, esaltata dalla figura di D’Annunzio, il capo carismatico di un seducente quanto improbabile misticismo patriottico.

Mussolini capì che intorno a sé e al suo giornale poteva raccogliere gran parte dei reduci, a patto di individuare la strada sulla quale si sarebbero avviati volentieri. Egli la individuò, al momento, in una sinistra nuova che non aspirasse a rovesciare lo stato, ma lo socializzasse con strumenti diversi dal socialismo riformista. Il passaggio di Mussolini dal socialismo al fascismo fu dunque graduale e motivato, tutt’altro che un tradimento.

Il 23 marzo 1919 Mussolini fondò in piazza San Sepolcro i Fasci di combattimento. In quel momento non dava molta importanza al movimento appena sorto, credendo ancora che la miglior politica fosse quella fatta attraverso il giornale e i partiti già esistenti. Nel suo progetto i Fasci dovevano servire soltanto a tenere più legato il suo non troppo omogeneo gruppo di sostenitori. Gli aderenti al movimento erano interventisti, ex rivoluzionari di sinistra, ex arditi, intellettuali futuristi, fra i quali Filippo Tommaso Martinetti, repubblicani ed  esponenti dell’Unione socialista italiana, di cui faceva parte Roberto Farinacci.

Nell’equilibrio del primo nucleo fascista gli arditi avevano un peso particolare; truppe d’assalto speciali e volontarie costituite nel 1917, erano visti come esempio estremo di spirito guerriero (a tal proposito il generale E. Caviglia disse:«L’ardito vive sparando e lanciando bombe a destra e sinistra, allegramente. Quando tornano dall’azione questi soldati dicono tra loro: “e ho ammazzati sei, otto, dieci…”Ognuno vanta il suo colpo di coltello e ne sperimenta di migliori. Tutto ciò va benissimo in guerra, ma in pace? Ahimè, io vedo già cosa potrà fare questa gente che non conosce più il valore della vita umana»). Alla fine della guerra ce n’erano tra i 25 e i 30000. La maggior parte si schierò con i fascisti, tra loro Giuseppe Bottai e Italo Balbo. Dagli arditi il fascismo mutuò simboli e riti: il fez, il teschio, il motto «Me ne frego!», il grido «A noi!» e l’inno “Giovinezza” (che era stato anche, con alcune variazioni nel testo, una canzone goliardica).

I Fasci di combattimento si proposero come la novità emergente della stagnante politica italiana, con due obbiettivi: scalzare a destra i nazionalisti e superare a sinistra il Patto Socialista.

Inizialmente Mussolini si impegnò poco nel nuovo movimento e solo a giugno venne elaborato un programma che erroneamente è passato alla storia come «programma di S. Sepolcro». Esso prevedeva: suffragio universale esteso a donne e diciottenni, assemblea nazionale per scegliere tra monarchia e repubblica, abolizione del Senato, giornata lavorativa di otto ore,  minimi salariali di Stato, modifica delle leggi assicurative, affidamento dei trasporti alle organizzazioni proletarie, totale libertà di pensiero, di parola, di stampa, sequestro dei beni delle congregazioni religiose, abolizione dei titoli nobiliari, imposta progressiva sul patrimonio, revisione di tutti i contratti per le forniture belliche, nazionalizzazione delle industrie di guerra e istituzione di una milizia nazionale.

Uniti non dal programma, ma dalla sete di violenza contro i «nemici della patria», i fascisti salirono per la prima volta alla ribalta nazionale il 15 aprile 1919, quando attaccarono e distrussero la sede dell’«Avanti!». Mussolini negò di essere il mandante o comunque di avere organizzato l’azione, ma dichiarò che i fascisti si assumevano tutta la responsabilità morale dell’episodio. Di questa situazione molto preoccupato era lo stesso Mussolini, dal momento che non aveva nessun controllo su arditi e futuristi , pur riuscendo a sembrare capo dei Fasci.

Il 12 settembre D’Annunzio con i suoi legionari occupò Fiume; sulla questione Mussolini e i Fasci erano ovviamente concordi con D’Annunzio, ciononostante Mussolini non aderì all’impresa, temendo che questa potesse provocare una rivolta socialista con conseguenze molto pericolose, e pensando soprattutto alle elezioni del novembre 1919. I risultati di queste però furono tragici per lui e problematici per il Paese. I socialisti passarono da 48 a 156 e sembravano sul punto di impadronirsi del potere con violenti moti di piazza, scioperi e occupazioni che si susseguivano in maniera sempre più incontrollata e incontrollabile. Assieme ai popolari avevano ottenuto la maggioranza dei voti (54.1 %) e dei deputati (256 su 508), anche se difficilmente avrebbero potuto allearsi, la vecchia classe dirigente liberale era di fatto in minoranza. La lista fascista presentata a Milano subì una vera disfatta: nonostante la presenza di nomi importanti come Marinetti, Vecchi e lo stesso Mussolini ottenne solo 4.657 voti su 270.000 e nessun fascista andò in Parlamento.

Il 15 giugno 1920, dopo la caduta del governo Nitti, tornò al potere l’anziano Giolitti. Costui per facilitare la ripresa economica prese provvedimenti basati su una riforma tributaria che premeva sulle classi privilegiate. La manovra sembrò funzionare: gli investimenti stranieri salirono, l’inflazione scese e i salari vennero adeguati. Purtroppo, però, gli investimenti esteri, nodo cruciale della politica giolittiana, non durarono a lungo: la crisi che investiva ormai da più di un anno le potenze europee non permise di mantenere l’ottimismo iniziale e la riforma fallì. Le fabbriche furono costrette ad abbassare i salari, ridurre gli organici o addirittura chiudere. Forti scioperi turbarono la penisola quando si decise l’abolizione del calmiere e del prezzo politico del pane;  intanto Giolitti aveva concesso agli industriali un forte protezionismo doganale, che però andava a svantaggio dei ceti agrari. Fu a questo punto che essi iniziarono a finanziare – o addirittura ad ingaggiare – le squadre fasciste, nemiche sia del governo sia dei socialisti.

A questo punto Mussolini si rese conto che i tempi erano maturi: spinse ancora più a destra il fascismo e dette il via libera allo squadrismo. Il «duce», come cominciavano a chiamarlo i suoi, cercava il consenso dei ceti altoborghesi rurali e industriali, senza però rinunciare a quello dei lavoratori; egli voleva soprattutto, al di là degli ideali politici, conquistare il potere, con qualsiasi alleato e mezzo.

 

 

 

La violenza e lo squadrismo

 

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ussolini sostanzialmente appoggiò il governo Giolitti, l’unico in grado di tenere a freno i socialisti. Nel settembre 1920, durante l’occupazione delle fabbriche, non si unì al coro di chi  rimproverava al governo di non aver usato la forza: contemporaneamente non si mostrò ostile all’occupazione per non inimicarsi gli operai e appoggiò le loro rivendicazioni salariali. Alla fine del 1920, poi, non contrastò la decisione giolittiana di risolvere con la forza la questione di Fiume: D’Annunzio e i suoi dovettero abbandonare la città sotto i bombardamenti e anche da destra qualcuno cominciò ad accusare Mussolini di tradimento. Giolitti, però, grazie a lui, aveva evitato una crisi internazionale e il rischio di ulteriori disordini interni: i conservatori si convinsero che il fascismo era un movimento patriottico e che non avrebbe portato nessuno scompiglio politico e sociale, anzi.

Così, alla fine del 1920, il progetto che solo un anno prima sembrava fallito era ora a buon punto: con D’Annunzio e i suoi fuori gioco l’eredità del nazionalismo era stata raccolta dai fascisti che nel frattempo stavano convincendo le campagne, dove i cattolici e i socialisti avevano sempre dominato. Dopo il fallimento dell’occupazione delle fabbriche, quando le sinistre e le loro formazioni paramilitari erano in piena crisi, cominciarono ad operare violentemente le squadre fasciste, iniziando una vera e propria guerriglia condotta secondo i metodi dell’arditismo: assalivano l’avversario con assalti improvvisi  che gli impedivano di riprendersi e di mettersi in collegamento con i compagni. I fascisti, usando pistole, manganelli e olio di ricino, si muovevano tranquillamente oltre la legalità. Bisogna dire però che la violenza non era una prerogativa solo dei fascisti, ma era comune a tutti i movimenti che tendevano a fare il popolo partecipe alla vita politica: nazionalisti, comunisti, fascisti, socialisti o anarchici, tutti avevano in comune la forza e lo scopo: sostituire le strutture dello stato liberale. Non esistevano ancora associazioni o istituti per dare modo al popolo di essere preso in considerazione. Esistevano solo organizzazioni di lavoratori che non disdegnavano il ricorso alla violenza, a cui lo stato rispondeva spesso con fucilate contro i manifestanti. La violenza era dunque l’unica arma che restava al popolo: un mezzo certamente non giustificabile, ma certamente comprensibile ed efficace in frangenti estremi. Se lo scontro fisico non riusciva quasi mai ad affermare i propri diritti, poteva per lo mento mostrare all’altro la propria esistenza e la sua drammaticità.

Lo squadrismo fu dunque un atto da condannare, come ogni violenza, specie se organizzata e premeditata, tuttavia bisogna distinguere la prima dalla seconda fase. Guglielmo Salvemini a tal proposito si è espresso così: «Gli stessi atti di violenza dei fascisti possono essere guardati con indulgenza. Dato che polizia e magistratura erano incapaci di difendere i cittadini dallo strapotere delle organizzazioni sindacali, questi stessi cittadini avevano il diritto di cercare di difendersi per mezzo di metodi illegali. Un fascista doveva affrontare l’impopolarità, era disposto alla violenza delle folle, rischiava di essere ferito o ucciso, rischio che non era così alto come vorrebbe farci credere la propaganda fascista, ma che era abbastanza concreto da far sbollire gli ardori ad un uomo comune».

Gli squadristi erano per lo più appartenenti alla media e piccola borghesia: molti erano ex ufficiali e molti altri anche studenti. Se le finalità delle azioni attiravano nelle squadre idealisti convinti e politici sognatori, erano invece i metodi a richiamare teppisti e assassini, criminali a piede libero che avevano imparato le tecniche dell’arditismo sotto le armi e cercavano, a guerra finita, una fonte di sussistenza. Grazie ai finanziamenti di molti proprietari costoro ricevevano, come squadristi, un compenso circa tre volte superiore a quello di un bracciante. Grazie allo squadrismo il fascismo trovò nelle campagne il suo ambiente naturale: i fasci di combattimento avevano sotto controllo le regioni agricole più importanti e nel 1921 le organizzazioni fasciste cominciarono a sostituirsi ai sindacati socialisti. Erano strutture di tipo nuovo, che mettevano insieme proletari, contadini, possidenti e imprenditori: avversione di classe, volontà di eliminare definitivamente il «pericolo rosso», desiderio di rivincita e vendetta, spirito di avventura, interesse personale, desiderio di farsi avanti nella vita sociale e politica, queste furono le matrici del successo fascista nelle regioni agricole del paese.

 

 

La marcia su Roma

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opo il successo nelle campagne arrivarono i finanziamenti anche dai grandi industriali e il fascismo sfondò anche nelle città settentrionali, soprattutto grazie ai continui slogan e motti che venivano propinati alla gente.«Nel fascismo è la salvezza delle nostre libertà» suonava borioso uno di questi slogan, e il popolo volle crederci; l’abilità di Mussolini, gli errori dei socialisti e dei liberali fecero il resto. Giolitti fu molto indulgente verso i fascisti, pur ritenendo eccessivi il loro ardore e l’amor di patria; egli voleva sfruttare la loro violenza per limitare il crescente potere dei due partiti di massa (socialista e cattolico), che stavano mettendo in ombra quello liberale. Riteneva infatti che solo i metodi fascisti avrebbero riportato i socialisti all’atteggiamento collaborativi dell’anteguerra; nella sua ottica i fascisti erano da considerare solo uno strumento, un forte ma stupido animale da lavoro che una volta terminato il suo compito si sarebbe fatto ricondurre nel suo recinto. Questo, dunque, il motivo che spinse Giolitti a far chiudere un occhio ai prefetti e alle forze dell’ordine sulle azioni squadriste.

Si giunse così al 15 maggio 1921, giorno delle elezioni. Durante il voto molte furono le illegalità, ma il risultato delle urne non fu sostanzialmente falsato.  Dalle elezioni emerse una Camera stravolta: a sinistra c’erano 122 socialisti e 16 comunisti; al centro 107 popolari, 26 socialisti riformisti, 41 democratici sociali, 24 democratici liberali, 36 democratici italiani sostenitori di Nitti, 42 democratici sostenitori di Giolitti; a destra si trovavano 21 liberali ispirati a Calandra, 11 nazionalisti, 23 agrari e 35 fascisti, tra cui, oltre Mussolini, Bottai, Farinacci e Grandi.

Mussolini capì che, giunto in Parlamento, doveva riqualificare il fascismo, rassicurare la borghesia timorosa di ulteriori violenze e poi puntare a mete più ambiziose della semplice distruzione del socialismo. Come prima cosa doveva evitare un accordo fra socialisti e popolari contro il suo schieramento. A tal fine in giugno cominciò trattative segrete con entrambi gli schieramenti per un patto di pacificazione. Quando lo si seppe lo squadrismo si ribellò, perché quel patto avrebbe segnato la sua fine, dovuta alla sua inutilità. Ma Mussolini, considerando quell’accordo fondamentale impose la sua volontà. Il patto di pacificazione venne firmato il 3 agosto: fascisti e socialisti (i popolari si erano ritirati) si impegnavano a cessare ogni azione illegale. Mussolini, però, rischiando una scissione all’interno del movimento nel giro di poco meno di tre mesi definì l’accordo prima «una svolta storica», poi «un accordo temporaneo» ed infine «un episodio retrospettivo».

Nell’autunno del1921 decise di trasformare il movimento in partito, per controllarlo meglio, normalizzarlo all’occhio dell’opinione pubblica e dargli un nuovo programma. Questo fu pubblicato  sul «Popolo d’Italia» l’otto ottobre 1921: restaurazione dell’economia nazionale, valorizzazione dello Stato, incremento delle attività produttive, necessità di un sindacato unico, linea dura contro il socialismo. Questa manovra non fu facile, specie perché ostacolata dalle ambizioni e dalla dissidenza dei vari capi locali (o «ras» come si facevano chiamare); il movimento fascista appariva ancora  un agglomerato anarchico più che un partito conservatore. Mussolini sfidò l’opposizione presentando le sue dimissioni dalla giunta esecutiva del movimento, sapendo che nessuno lo avrebbe potuto sostituire; queste furono infatti respinte. La trasformazione da movimento a PNF avvenne durante il congresso, svoltosi a Roma, del 7 novembre 1921, nel quale Mussolini espresse i tre punti cardinali del suo programma: un irriducibile antisocialismo, il rifiuto della Carta del Carnaro dannunziana come base costituzionale, l’apertura verso la chiesa. Gli squadristi vennero rassicurati: sarebbero rimasti il nerbo del partito e vennero inglobati nel PNF come un contingente paramilitare. Mussolini dovette risolvere anche il problema della monarchia, la cui abolizione era stata uno dei punti del programma sansepolcrista: non poteva fare una rivoluzione che comportasse la detronizzazione dei Savoia, perché il suo repubblicanesimo urtava contro l’ideale comune della borghesia che era monarchca. Così in un discorso a Udine sostenne che la monarchia non osteggiava il fascismo, quindi il fascismo non avrebbe tentato di destituire la monarchia, «unica continuità storica d’Italia». Allo stesso tempo inviò al re un vero e proprio ultimatum: se non avesse affidato il potere a chi si era dimostrato in grado di gestirlo adeguatamente, un altro re avrebbe potuto presentarsi sulla scena.

Nel 1922 l’instabilità del Paese e l’incapacità del governo raggiunsero l’apice: vista la debolezza dello stato i fascisti sostituirono alla tecnica delle piccole squadre quella di concentrare migliaia di uomini e occupare e devastare intere città. Il primo di agosto le sinistre commisero un errore fatale: proclamarono uno sciopero a tempo indeterminato contro il fascismo. La borghesia si spaventò per la possibilità di un ritorno agli scioperi di due anni prima e il fascismo poté presentarsi così come suo difensore. I fascisti riuscirono a fare funzionare l’essenziale, facendo miseramente fallire l’iniziativa: era la sconfitta definitiva delle sinistre. Ormai rimaneva da battere solo il governo, presieduto da Facta. Facta in ottobre offrì a Mussolini la possibilità di partecipare a un nuovo ministero guidato da Giolitti, Calandra o da lui stesso, sperando che la partecipazione all’esecutivo avrebbe frenato la violenza e la illegalità fasciste. Mussolini rifiutò: non voleva entrare in un governo, voleva farlo lui. Così rispolverò una vecchia idea di D’Annunzio, la «marcia su Roma», per dimostrare la potenza del fascismo. Il 25 ottobre  del ’22 dettò una sorta di ultimatum allo stato e dette il via alle operazioni: sotto il comando dei quadrunviri Balbo, De Bono, Bianchi e De Vecchi quattro colonne fasciste avrebbero dovuto convergere su Roma, mentre in ogni città le squadre dovevano occupare i punti strategici. Mussolini giocò in quei giorni la sua partita più abile: trattò con tutti (Calandra, Facta, Nitti, Giolitti, Orlando), illudendo la classe politica liberale di essere disposto ad un aggiustamento costituzionale, intrattenne rapporti con esercito e massoneria, incoraggiando i più decisi all’azione armata. Mussolini insomma confuse il più possibile le carte, facendo una «rivoluzione diplomatica», o per telefono, come disse Balbo in uno scatto d’ira quando si rese conto che il duce considerava l’aspetto militare poco più che una parata, e aveva ragione. Sapeva bene, infatti,  che poche migliaia di soldati avrebbero potuto comodamente fermare i fascisti, se soltanto ne avessero ricevuto l’ordine. Il 28 ottobre Facta presentò le dimissioni al re, che le respinse. Il governo a quel punto dichiarò lo stato d’assedio: le autorità militari e i prefetti avrebbero dovuto opporsi con la forza alle squadre fasciste. Ma il re non appose la sua firma all’ordine: Mussolini aveva messo Vittorio Emanuele III nelle condizioni di scatenare una guerra civile o di affidare a lui il governo; ciò accadde il 30 ottobre.

 

 

 

Il primo governo

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er evitare trattative lunghe e difficili che lo avrebbero portato a fare troppe concessioni ai partiti e a un parlamentarismo che voleva far dimenticare, Mussolini si era rivolto direttamente agli uomini. I fascisti assunsero direttamente tre ministeri fondamentali (Giustizia, Finanze e Terre liberate) e Mussolini personalmente si pose a capo di Esteri e Interni. I nazionalisti ebbero solo un ministero (Colonie), popolari e democratici due ciascuno (Tesoro e Lavoro, Lavori pubblici e Industria), l’Agricoltura fu assegnata a un liberale e le Poste a un demosociale. Il governo fascista venne tranquillamente approvato grazie anche al discorso «del bivacco» tenuto da Mussolini il 16 dicembre. Inoltre la situazione economica degli anni 1922-25 aiutò l’assestamento fascista. Nei primi anni di potere il governo riuscì a eliminare il disavanzo sociale con una rigida politica di contenimento delle spese. Mussolini non esitò a favorire sfacciatamente la classe imprenditoriale. Dopo il decreto contro la nominatività dei titoli (10 novembre 1922), altri decreti stabilirono l’abrogazione del blocco dei fitti (7 gennaio 9123), la privatizzazione dei telefoni (8 febbraio), l’abolizione del monopolio statale delle assicurazioni sulla vita (29 aprile). Si stabilì il principio delle otto ore lavorative, che effettivamente fu applicato solo dieci anni dopo. Il 21 novembre 1923 infine i sindacati fascisti e la Confederazione dell’industria arrivarono all’accordo di palazzo Chigi, impegnandosi a non scendere in conflitti di lavoro, ma a dirimere ogni controversia con la mediazione del governo.

Mussolini si applicò particolarmente alla normalizzazione del fascismo integrandolo nello Stato. Pose infatti la massima cura nel rafforzare l’autorità statale, soprattutto quella dei prefetti e dell’esercito, ma affiancandole organismi fascisti. Nel gennaio 1923 vennero istituiti il Gran Consiglio del Fascismo e la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN). Il Gran Consiglio venne definito come supremo organo coordinante e integrante tutte le attività del regime. In teoria avrebbe dovuto essere consultato per ogni questione di rilevante interesse nazionale, ma in realtà non aveva poteri. Nelle intenzioni di Mussolini esso aveva tre compiti non dichiarati: dare soddisfazione e un’apparenza di potere ai capi fascisti; dare l’impressione di una possibilità di dibattito all’interno del PNF; affiancare al consiglio dei ministri un’istituzione esclusivamente fascista.

La Milizia, invece, nasceva dallo scioglimento delle squadre, ma ne conservava l’organizzazione e ne ereditava la missione; poteva considerarsi un esercito di partito, che addirittura non doveva prestare giuramento al re, ma a Mussolini. Solo nel 1924 sarebbe entrata a far parte delle forze armate, giurando al re.

 

Rinnegando l’anticlericalismo e l’ateismo giovanili Mussolini curò meticolosamente i rapporti con la Chiesa. Fu principalmente con il cardinale Pietro Gasparri che Mussolini trattò le questioni inerenti la Santa Sede. Il Partito Popolare stava politicizzando troppo i cattolici, scontentando la Chiesa che non voleva altro che un governo che le lasciasse ampia libertà di movimento, specie nelle scuole. Il Vaticano da tempo mal sopportava le idee di don Sturzo, per il quale i fascisti erano «neri figuri illiberali e anticristiani», mentre il Vaticano e Mussolini pensarono subito di sfruttarsi a vicenda.

Il primo incontro segreto tra Mussolini e Gasparri avvenne il 20 gennaio 1923, quando Mussolini dichiarò la volontà di risolvere la delicata questione romana (a ciò fu spinto solo dalla ragion di stato, dal momento che solo con l’appoggio dei cattolici il fascismo avrebbe potuto avere un potere assoluto). A contribuire ulteriormente all’avvicinamento tra le due parti fu la riforma della scuola operata nel 1923 da Giovanni Gentile, che reintroduceva l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole primarie. La Chiesa apprezzò inoltre il fatto che fosse stata dichiarata l’incompatibilità fra fascismo e massoneria, ai cui membri erano state comminate numerose scomuniche  sin dal 1738. Oltre a ciò venne riconosciuta l’Università Cattolica, vennero stanziati 3 milioni di lire per essa e regalati 600 quadri alle chiese danneggiate dalla guerra, furono emanate delle leggi a favore dei sacerdoti, la polizia eliminò il controllo sulle affissioni in chiesa e si dispose che il crocifisso venisse affisso in ogni aula scolastica e di tribunale e negli uffici pubblici. Come segno ulteriore del fervore con cui Mussolini voleva avvicinarsi alla Santa Sede, faceva nel frattempo picchiare e bastonare numerosi cattolici in giro per l’Italia la cui colpa era solamente quella di partecipare a manifestazioni con le bandiere delle loro associazioni. Tale azione raggiunse il culmine il 23 agosto 1923 quando i fascisti uccisero don Giovanni Minzioni, eroe di guerra, antifascista e temuto organizzatore di manifestazioni cattoliche.

 

 

Il delitto Matteotti e la dittatura

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er le elezioni del 6 aprile 1924 Mussolini formò una lista in cui erano presenti diversi liberali, mentre Giolitti si presentò con una lista propria. Se Mussolini da un lato voleva che si svolgessero regolarmente, per permettere una maggior affluenza alle urne, dall’altro ordinò pestaggi contro i fascisti dissidenti che avevano presentato liste proprie. I ras non fecero distinzioni: molti comizi vennero impediti, diversi oratori picchiati, numerose sezioni avversarie distrutte, alcuni giornali incendiati. Lo stesso Giolitti definì la vicenda elettorale una «torbida avventura condotta con metodi indegni di un paese civile».

Alle urne andò il 63,8 % degli elettori: la lista di Mussolini vinse con 4.304.936 voti più 347.552 di una lista d’appoggio. Mussolini invitò gli avversari a collaborare, dal momento che non avrebbe tollerato alcun ostruzionismo. L’opposizione trovò un leader in Giacomo Matteotti. Deputato dal 1919 e segretario del Partito Socialista dal 1922, non aveva mai avuto dubbi sulla necessità di combattere il fascismo a oltranza. Denunciò con decisione le violenze fasciste compiute sotto le elezioni, proponendo che esse fossero annullate. Il voto fu naturalmente contrario. Matteotti però polemizzò ancora contro Mussolini sfidando ogni minaccia (assieme a lui parlò anche Giovanni Amendola). La situazione in Parlamento era molto tesa e Mussolini tentò di sdrammatizzarla (7 giugno). Alla camera si dimostrò molto conciliante verso le opposizioni, riaffermò la validità delle elezioni e affermò che da quel giorno  il Paese sarebbe tornato alla normalità. Tre giorni dopo Matteotti veniva rapito e assassinato. Il suo cadavere fu trovato due mesi dopo.

Gli esecutori erano stati gli squadristi appartenenti alla Ceka (gruppo “segreto” di squadristi prettamente usato da Mussolini per i pestaggi e per «dare una lezione». Il nome le conferiva una fama terribile; evitava generalmente di uccidere i suoi bersagli, limitandosi a forte violenza fisica che doveva stroncare le resistenza psicologica dell’avversario. L’organizzatore del gruppo era il segretario amministrativo del partito, Giovanni Marinelli, che ne rispondeva direttamente al duce), coperti da alti funzionari del partito. Gli storici sono a tutt’oggi scettici nel dire che sia stato Mussolini a ordinare l’atroce delitto: dicono infatti che Mussolini a quei tempi era troppo astuto e intento a raggiungere il potere per compiere un gesto che arrecò gravi danni al fascismo (disse anche:«Solo un mio nemico, che da lunghe notti avesse pensato a qualcosa di diabolico, poteva effettuare questo delitto»); una delle ipotesi infatti è che sia stato organizzato da estremisti all’interno del PNF contro Mussolini, scontenti della troppa «mitezza» del duce. Il più grave danno per il partito fu che Mussolini non poté portarvi all’interno alcuni socialisti riformisti, dovendo altresì optare per la dittatura prima del previsto. Altra ipotesi fondata è che il delitto sia stato organizzato negli ambienti loscamente affaristici del sottogoverno fascista che Matteotti stava per denunciare in Parlamento. Comunque la tesi ancora più accreditata è che sia stato Mussolini, pronunciando parole ambigue, cioè senza dare un preciso ordine,  dicendo:«Cosa fa questa Ceka? Quell’uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare». Marinelli e Dumini (altro uomo di punta della Ceka) avrebbero preso queste parole per un ordine e organizzato il delitto all’insaputa del duce.

Comunque fosse andata la responsabilità morale del delitto fu di Mussolini e del clima di violenza contro gli avversari che aveva instaurato per placare la sua sete di potere. Il 13 giugno si seppe che gli autori del delitto erano fascisti e un’ondata di sdegno invase il fascismo e Mussolini; molti iscritti lasciarono il partito, chiedendo un nuovo governo. Nei giorni seguenti Mussolini fece di tutto per accrescere l’immagine legalitaria del governo: per mise l’arresto di due suoi stretti collaboratori, implicati nel delitto e del direttore del giornale fascista “Corriere Italiano”, proprietario dell’automobile su cui era avvenuto il delitto. Sarebbe stato il momento ottimale per un’insurrezione popolare, perché il governo fascista non era mai stato così debole, ma gli oppositori non furono all’altezza della situazione e non seppero fare altro che «ritirarsi sull’Aventino»:   il 27 giugno decisero di lasciare il Parlamento finché non fosse stata ristabilita la legalità. L’opposizione chiese al re lo scioglimento della Camera e nuove elezioni. Il re temette che tale decisione avrebbe portato ad una guerra civile, e non accolse la richiesta.

Il 12 settembre un antifascista uccise a Roma il deputato fascista Armando Canalini e questo permise ai fascisti di avere il loro martire e scatenare una nuova ondata di violenza.

Il 27 dicembre Giovanni Amendola che dirigeva “Il Mondo” pubblicò un memoriale in cui si diceva:«Tutto quanto è successo è avvenuto sempre per la volontà diretta o la complicità del duce». Si scatenò un’altra ondata di sdegno che sembrò fatale al governo, ma il 31 dicembre ci fu la svolta decisiva per la nascita del regime fascista: 33 consoli della Milizia, istigati da Balbo, andarono da Mussolini dicendo che se non si fosse deciso a stroncare le opposizioni lo avrebbero «sconfessato».  Mussolini sapeva che quegli uomini erano assai più pericolosi dell’opposizione e – se non fossero riusciti a rovesciarlo direttamente – avrebbero potuto creare un clima insopportabile che avrebbe finito per travolgerlo. Promise quindi che il 3 gennaio 1925 alla riapertura della Camera avrebbe risolto il problema. E così fece. Pronunciò alla Camera un discorso che andava dritto al punto, elencò tutti gli sforzi fatti per pacificare il Paese dopo il delitto Matteotti, infine disse che «nelle quarantott’ore successive a questo mio discorso la soluzione sarà chiarita a tutta l’area». Erano le 16.10; nella notte partirono i telegrammi ai prefetti con un elenco di misure repressive; nei giorni seguenti furono chiusi circa 400 circoli, gruppi, esercizi pubblici considerati ostili e vennero arrestati 111 sovversivi. Era solo l’inizio, entro la fine del 1926 sarebbero state emanate tutte le leggi liberticide e sciolti gli altri partiti.